Stalking & violenza sulle donne, l’avvocato Gianna Benvenga: “Passi avanti ma gli strumenti non bastano”

Donna, avvocato, amministratrice: per analizzare il fenomeno cancerogeno della violenza sulle donne nel Vallo di Diano e non solo, è davvero preziosa la testimonianza dell’avvocato Gianna Benvenga, dello Studio Legale Senatore.

 

GIANNA BENVENGA GIANNA BENVENGA STUDIO SENATORE RID

Il problema della violenza contro le donne emerge in tutta la sua gravità anche nel Vallo di Diano: proprio di recente la piaga del reato di stalking è tornata alla ribalta con un episodio eclatante. Inoltre sono significativi i dati forniti dal Centro Antiviolenza Aretusa: 80 denunce in un anno di attività. Dal suo punto di vista privilegiato, come amministratrice e come avvocato particolarmente sensibile al problema, cosa si sente di dire?

“La violenza sulle donne resta una piaga sempre aperta nella nostra società. Negli ultimi decenni sono stati compiuti enormi progressi, sia sul piano della percezione della gravità del fenomeno e della sua rilevanza sociale e collettiva da parte della società civile, sia sul piano del contrasto a livello istituzionale e delle agenzie educative. Tuttavia questi enormi progressi non sono ancora sufficienti: il fenomeno è ancora molto vasto, e ci impone di fare una riflessione seria sull’efficacia degli strumenti che pure ci sono e stanno dando importanti risultati. Dobbiamo avere chiara la percezione che, ancora, tutto quello che è stato fatto non basta. Sul piano legislativo l’introduzione del reato di Stalking ha dato importanti risultati, ma comunque la cronaca ci fa registrare quotidianamente casi gravissimi che sfociano anche in omicidio. Sul piano dell’attuazione pratica della legge evidentemente ci sono situazioni che sfuggono all’efficacia di questi strumenti, a partire proprio dal piano teorico. La legge sul reato di Stalking può garantire determinati interventi quando il comportamento della persona che pone in essere la condotta violenta può essere inquadrato in un contesto di “normalità”. Quando invece subentra una condizione di “patologia”, le azioni previste come l’allontanamento ed il carcere per un periodo di tempo con consentono alle vittime di ricostruire condizioni di sicurezza e libertà psicologica, neppure quando lo strumento legislativo è stato applicato nella sua pienezza. Bisogna lavorare molto su queste “aree grigie”, sia in termini di strumenti che di pratiche. Alcuni comportamenti non possono essere classificati come patologici nelle categorie medicalmente e giuridicamente rilevanti, però comunque queste persone sfuggono ad un controllo emotivo della situazione. Il problema della violenza sulle donne è fatto di interventi quotidiani che devono essere posti in essere da chi opera sui territori, e anche da strumenti che devono essere ulteriormente affinati sul piano legislativo. Per la mia esperienza di avvocato purtroppo i tempi della giustizia, che in generale in Italia costituiscono un problema generale, nel caso della violenza sulle donne diventano negazione di giustizia. Qualche volta purtroppo c’è anche una sottovalutazione del rischio da parte degli uffici giudiziari o di singoli magistrati: anche se i singoli episodi non destano un particolare allarme, vanno inseriti in un contesto di reiterazione del comportamento, che incide pesantemente sull’esistenza della vittima. Rispetto a questi aspetti siamo davvero lontani a dare risposte concrete a chi ha la sventura di incappare in un dramma di questo tipo”.

Possiamo parlare di “vite sospese”?

“Si tratta di vite DAVVERO sospese per le vittime: conosco episodi di donne che hanno difficoltà ad organizzare l’arredamento di una casa per non far percepire all’altra persona la volontà di sistemazione da qualche altra parte. Ma tutta questa violenza, che comunque altera profondamente la vita, è difficile trasferirla in un atto legale e farlo valere in un’aula di tribunale. Purtroppo in tribunale si arriva quando ci sono fatti che evidenziano una violenza già consumata. È chiaro che si tratta di temi estremamente complessi, dove si intrecciano la libertà e l’incolumità della vittima e la libertà e la presunzione di innocenza dell’altra persona coinvolta: entrambe vanno garantite allo stesso modo. Ma sulla tempestività degli interventi e su percorsi differenziati nelle indagini si deve assolutamente fare qualcosa, sia a livello legislativo sia nell’attività pratica di tutti i giorni”.

Le donne vittime di violenza nel Vallo di Diano denunciano più facilmente rispetto a qualche anno fa?

“Qualche denuncia in più c’è, però paradossalmente più i casi sono gravi più si stenta a denunciare. Ovviamente bisogna sempre denunciare, perché soltanto in questo modo si può affrontare il fenomeno della violenza. Nel nostro territorio ci sono tutta una serie di strumenti, ad esempio il Centro Antiviolenza, i servizi sociali dei comuni, bisogna aver fiducia nelle Istituzioni e anche nella solidarietà familiare ed amicale. Quindi è fondamentale denunciare, ma c’è da constatare che evidentemente le risposte non sono ancora così tempestive da incoraggiare le denunce stesse. Infine secondo me c’è anche un altro aspetto che va considerato: c’è molta attenzione, in particolare nei centri di ascolto, per la persona vittima della violenza, ma forse bisognerebbe spostare anche un po’ l’attenzione su chi compie la violenza. Se si accerta che un soggetto è autore di una violenza, deve essere attenzionato per cercare di capire cosa c’è che non va e soprattutto per cercare di inibire comportamenti che possono evolvere in situazioni più gravi. Ma anche la semplice creazione di uno stato d’ansia nella vittima va contrastata”.

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