Un valdianese in Vietnam: le impressioni di viaggio del sociologo Giulio Pica 40 anni dopo la guerra
SUL SUO RECENTE VIAGGIO EFFETTUATO IN VIETNAM, RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO LE RIFLESSIONI DEL SOCIOLOGO GIULIO PICA*
“Per la generazione nata negli anni ’50 ed anche per quella successiva, alla quale io appartengo, il Vietnam ha rappresentato il simbolo della resistenza all’imperialismo, prima francese e poi americano, della tenacia e del coraggio di un popolo che, con mezzi rudimentali e tattiche ingegnose, ha difeso la propria terra pagando prezzi altissimi in termini di vite umane e di devastazione ambientale.
L’immagine del bonzo che si dà fuoco nel 1963 per rivendicare il diritto alla libertà di culto negata dal governo filo-occidentale del cattolico Ngo Dinh Diem, la foto che ritrae Kim Phuk, la bambina che, nel 1972, corre nuda e piangente per sfuggire ai bombardamenti al napalm effettuati su grande scala dagli invasori americani, sono rimaste impresse nella mente di milioni di occidentali che, in quegli anni, maturavano la consapevolezza delle atrocità perpetrate prima dai francesi e poi dagli americani, secondo una logica di spartizione geopolitica del Terzo Mondo che vedeva contrapposti i paesi capitalisti a quelli del blocco sovietico. Il Vietnam, questo Paese fino ad allora sconosciuto, irrompeva con prepotenza nell’immaginario degli occidentali e spingeva milioni di giovani ad abbandonare il mondo comodo e rassicurante del boom economico e del consumismo emergente, per acquisire una coscienza critica e ribelle.
Andare in Vietnam ora, nel 2017, a più di 40 anni di distanza da quegli eventi, è stato utilissimo per capire cosa è cambiato da allora, cosa rimane di quel passato e, soprattutto, verificare che il partito comunista attualmente al potere, del comunismo ha mantenuto soltanto il nome ed il simbolo racchiuso in qualche bandiera rossa che ancora sventola sugli edifici, con falce e martello gialli ed in posizione contraria rispetto a come li si raffigura in Occidente. Ciò che colpisce immediatamente, soprattutto nelle grandi città, è l’enorme presenza di giovani che svolgono tutti i mestieri: dagli addetti alla reception degli alberghi, dagli impiegati di banca, dai poliziotti agli operai, ai tassisti. Sembra che tutto sia in mano ai giovani, che gli anziani siano relegati in una posizione marginale. Il sorriso e la gentilezza sono la cifra costante dei vietnamiti: anche le poliziotte addette al controllo passeggeri all’aeroporto, dismettono l’aria severa per dispensare sorrisi ammalianti.
Tutto il contrario dell’Occidente in declino, popolato da anziani, da vecchi abbarbicati alle loro posizioni di potere, da giovani costretti ad emigrare perché impossibilitati a trovare una giusta collocazione nel sistema produttivo per colpa dell’egoismo dei vecchi. Forse è per questo che si vedono passeggiare per le vie di Hanoi, di Saigon o di Cantho, tanti maschi anziani americani ed europei, mano nella mano con vietnamite poco più che adolescenti, ragazze costrette, in tal caso, ad esprimere un sorriso di circostanza in cambio di qualche dollaro in più. Sembra quasi che loro siano i rappresentanti fedeli di un Occidente decrepito e disincantato che cerca negli emergenti paesi dell’estremo oriente la vitalità di una gioventù ormai trapassata. La vita notturna di Hanoi pullula di giovani e giovanissimi, le strade del centro antico sono costellate di pub, discoteche, sale dove ci si cimenta nel karaoke, di cubiste che ballano nelle gabbie esposte ai passanti.
Tutta questa vitalità può trasmettere l’impressione di un Paese felice, spensierato, quasi perfetto, nel quale i giovani sono padroni delle proprie vite, ma, come era prevedibile, accanto alle luci ci sono molte ombre. È bastato ascoltare la testimonianza di una giovane guida turistica intelligente e sensibile, per capire che in Vietnam, come in quasi tutti i Paesi dell’Asia orientale, i partiti al potere, comunisti e non, sono diventati i cani da guardia delle grandi multinazionali che, in nome del profitto, inquinano e sconvolgono l’eco sistema senza alcun riguardo. Qualche mese fa, una grande impresa taiwanese che produce acciaio, ha riversato in mare tonnellate di scarti della lavorazione provocando la distruzione della fauna marina. Alcuni gruppi di giovani hanno tentato di sollevare il problema sui social-media, ma i siti sono stati oscurati dal regime ed i giovani minacciati di arresto. I giornali riportano quotidianamente fatti di cronaca di poco conto, il pluralismo della stampa non è ammesso, gli elettori possono votare i rappresentati locali dell’unico partito al potere; il Parlamento è ridotto a camera di diffusione delle decisioni dell’Esecutivo. Lo Stato è il partito che detiene il potere; quelli comunisti di Cina e Vietnam, per una beffa della storia, sono diventati, di fatto, quel che Marx diceva dei partiti al potere nell’Europa del XIX secolo, ovvero “comitati di gestione degli affari della borghesia”.
Lungo la strada che conduce da Hanoi ad Hai Phong si susseguono decine e decine di grandi capannoni industriali con i nomi di marchi a noi molto familiari: Samsung, Hyundai, Canon, Piaggio, Mitsubishi e tanti altri. I cinesi occupano le isole vietnamite e pescano all’interno delle acque territoriali senza che il governo locale osi opporre resistenza. L’unico merito, se così si può definire, del partito comunista vietnamita, come ci raccontava un’altra giovane guida, consiste nell’aver attenuato lo spaventoso divario di classe che si manifesta, ad esempio, in Thailandia, dove i nuovi ricchi ostentano senza pudore il loro benessere accanto all’estrema povertà delle periferie di Bangkok.
Per il resto, lo sviluppo economico a ritmi elevatissimi avviene al caro prezzo della devastazione ambientale e forse proprio la questione ecologica farà insorgere i milioni di giovani che costituiscono la componente maggioritaria della popolazione vietnamita. La sovrabbondanza di manodopera giovane ed a basso costo attira le grandi imprese cinesi, giapponesi e sud-coreane che in Vietnam investono capitali a ritmo accelerato. Non a caso a Saigon la metropolitana la costruiscono i giapponesi, così come le decine di grattacieli che sorgono nei quartieri centrali della città. Le minoranze etniche delle montagne del Nord, coi loro vestiti variopinti, convivono con una modernizzazione forsennata che, si spera, venga almeno frenata dai tanti giovani che non sembrano disposti a continuare a pagare ancora per molto un prezzo così alto”.
GIULIO PICA
*Giulio Pica è nato a Sala Consilina nel 1964. Vive a Sala Consilina e lavora come sociologo al Sert di Potenza dal 1993. Non appartiene ad alcun partito politico ma segue con costanza l’evoluzione della politica e dei fenomeni sociali in genere. Di recente ha pubblicato il volume “Sala, Napoli, Berlino”